Lo scenario artistico, ricco e variegato, del Piemonte è costellato di
opere singolari, che testimoniano la presenza di una cultura vivace e
composita, aperta a influenze diverse, sia territoriali che oltremontane,
non di rado riconducibile anche a specifiche correnti. Il Piemonte si
configura, pertanto, come terra d'arte caratterizzata dalla presenza di
artisti di diversa provenienza (non solo italici, ma anche - e in larga
misura - francesi e fiamminghi), che nel corso dei secoli, grazie ad una
intensa attività di mecenatismo, sia ispirato da esigenze locali sia
promosso dalla corte sabauda, hanno dato vita ad opere di sorprendente
resa tecnica ed espressiva nel segno di una dirompente originalità.
Il caso del Maestro di Elva rientra nel novero di questi pittori, che,
pur di matrice non autoctona, appartengono di diritto alla storia dell'arte
piemontese per l'apporto significativo recato al nostro patrimonio artistico.
Hans Clemer, secondo un'attendibile identificazione presentata una
ventina di anni orsono, é il nome dell'artista a lungo citato come
Maestro di Elva in relazione agli affreschi che ornano la parrocchiale
dei paese della Val Maira. Ma il pittore fiammingo non si limita ad esercitare
la sua arte nella chiesa di Elva, giacché la sua presenza sul territorio
saluzzese è comprovata da una serie di opere che spaziano dai soggetti
religiosi alle raffigurazioni storico-mitologiche. Il percorso artistico di
Hans Clemer, ricostruito con accuratezza filologica in questi ultimi anni,
sulla base di quanto Noemi Gabrielli aveva già rilevato nel lontano 1957,
evidenzia una cultura articolata, attenta a soluzioni innovative, nella
quale si leggono suggestivi riferimenti a Gian Martino Spanzotti, già attivo
nello stesso periodo del Maestro di Elva (lo scorcio dei XV secolo), anche se
probabilmente di poco piú vecchio del fiammingo, ai ferraresi, a Piero della
Francesca, ai pittori catalani.
Già nella grande pala con la «Madonna della Misericordia» di Casa Cavassa a
Saluzzo, lo schema compositivo riprende modelli provenzali, ma riscattati da
un'accentuata luminositá del colore, cui l'oro dello sfondo e dell'abito della
Vergine conferiscono particolare brillantezza e leggerezza; Clemer dimostra di
saper reinterpretare la lezione oltremontana con la vigoria, talora marcata,
del disegno unitamente all'accentuato realismo ne,la caratterizzazione dei
personaggi: la figura di S.Pietro si segnala per la resa fisiognomica, plebea
e dolente ad un tempo, del popolano santo, chiamato, suo malgrado, a ricoprire
un ruolo prestigioso e difficile. Gli angeli che fanno corona alla Vergine
denotano la conoscenza delle opere del contemporaneo Spanzotti nel modellato
scabro e persino un po' rude, così come simile a molte Madonne spanzottiane
(soprattutto a quella del trittico della Galleria Sabauda di Torino) appare
l'immagine di Maria per l'oro delicato delle chiome, il pallore quasi slavato
del volto e la modesta bellezza delle fattezze del volto; la stessa Margherita
di Foix, moglie del marchese di Saluzzo Ludovico II, ivi rappresentata con
l'infante primogenito Michele Antonio, sembra confondersi, umilmente e
cristianamente, nel novero degli altri personaggi.
Le committenze assegnate a Clemer dalla corte dei marchesi di Saiuzzo
costituiscono un'occasione di esaltazione del prestigio raggiunto da siffatta
famiglia; il 24 luglio 1494, data dei conferimento a Ludovico II, da parte di
Carlo VIII di Francia, del collare dell'Ordine di San Michele (la massima
onorificenza che un sovrano francese potesse concedere ad un suo alleato),
diviene momento di celebrazione attraverso lo stupendo «Polittico» della
Cattedrale dell'Assunta (il Duomo) di Saluzzo.
Prendendo il 1494 come terminus post quem e tenendo conto del fatto che tra la fine del XV e
l'inizio dei XVI secolo Ludovico II attraversa un periodo di singolare
prestigio personale e politico (nel 1501 è nominato governatore di Asti e
nel 1503 viceré di Napoli), il «Polittico» dovrebbe appartenere agli anni
1498-1500, quando la Cattedrale, benché ancora in fase di costruzione,
consente tuttavia la celebrazione dei riti. I santi raffigurati, tra cui
S.Chiaffredo e S.Costanzo protettori del marchesato, appaiono con tutta
l'eleganza e la signorilità di gentiluomini rinascimentali: lo splendore
degli abiti, accentuato dall'inserzione di particolari di raffinata fattura,
le posture sicure ed insieme aggraziate conferiscono un fascino particolare
alla maschia beliezza dei volti, creando, nel contempo, un piacevole contrasto
con l'espressione seria e alquanto sofferente, accentuata dal particolare
taglio degli occhi. La lezione rinascimentale lombarda, non disgiunta da
suggestivi echi fiorentini, traspare dall'opera, ove lo stesso S.Sebastiano
pare mediato da cartoni di botteghe toscane, come di sapore tosco-lombardo è
la prospettiva, elegante nella sua stringata sobrietà, che fa da sfondo al
martirio del santo.
Ma non è solo la corte saluzzese a offrire committenze al valente fiammingo,
ché anche le nobili casate cittadine, come gli ordini monastici, gli affidano
importanti lavori.
Su due pareti, nei cortile di Casa della Chiesa, Clemer affresca le «Storie
di David», dando prova di un linguaggio intenso, caratterizzato dal segno
forte e vigoroso, e attento ai dettagli realistici, particolarmente marcati
nella resa dei visi e degli abiti. La cultura lombarda, pur stemperata,
a tratti, con apporti diversi, si imprime nel richiamo rinascimentale del
fregio a grottesche, nell'uso sapiente della luce e dei riflessi chiaroscurali,
accentuati dalla scelta del monocromo.
L'utilizzo sicuro della prospettiva, complice il richiamo leonardesco (e non
solo), aggiunge una robusta bellezza al risalto delle scene: la veduta di una
città fortificata acquista un tocco di particolare concretezza nella
presentazione compatta degli edifici, mentre nell'ingresso di Saul in
Gerusalemme l'incrociarsi delle lance sullo sfondo ha tutta la fascinosa
suggestione di analoghe realizzazioni tratte da Paolo Uccello. Né son da meno
gli affreschi rappresentanti le «Fatiche di Ercole», anch'essi
à grisaille, che ornano la balconata al primo piano di Casa Cavassa.
Pennellate rapide e segni incisivi fanno risaltare superbamente modellati
plastici dei personaggi, ove più intensa appare la lezione desunta dai classici:
la concezione anatomica è esaltata dal gioco chiaroscurale, mentre la ricerca
prospettica è affidata a superfici modulate, spesso riproducenti un paesaggio
roccioso, digradante verso lo sfondo. La maturità raggiunta dall'artista,
soprattutto in quest'opera, accentua la lontananza dagli affreschi di Elva,
significativamente nel modo di intendere il paesaggio e nello studio dei
personaggi; gli apporti di una cultura composta e aperta alla ricezione di
soluzioni diverse, puntualmente reinterpretate con sottile originalità, si
riflettono in una eccezionale padronanza di mezzi espressivi e nella ricerca
costante di realizzazioni innovative. Ma è alle pitture di Elva che la fama di
Clemer è legata, né potrebbe essere diversamente, dal momento che proprio dagli
studi su questi affreschi si è partiti per rileggere il cammino artistico del
fiammingo.
Il ciclo con le «Storie della Madonna e dell'infanzia di Cristo»,
culminante nella grandiosa «Crocifissione», risente ancora dell'impostazione
scenica nizzardo-provenzaie (così da essere collocato cronologicamente tra la
fine del XV e l'inizio del XVI secolo), animata da un'avvolgente luminosità di
colore. Ma l'umanità espressiva dei personaggi e la solidità dell'impianto
prospettico rimandano al linguaggio dello Spanzotti, come dolcemente spanzottiana
appare la figura della Vergine nelle scene dell'«infanzia di Cristo». La
oncezione della figura umana, salda e robusta, talvolta permeata da una
piacevole rudezza, ricorre per tutti i riquadri del ciclo, ora fatta risaltare
su intensi paesaggi dalla concreta impostazione rocciosa, come nella «Strage
degli innocenti» o nella «Fuga in Egitto», più spesso sullo sfondo di eleganti
strutture architettoniche, come nella «Cacciata di S.Gioacchino dal Tempio»
o nell'«incontro di S.Gioacchino e di S.Anna».
La «Crocifissione» è un piccolo capolavoro intessuto di pathos e di sofferenza,
dominato dal corpo illividito del Cristo; Gesù e i due ladroni si stagliano
al di sopra della folla vociante e plebea, in cui si mescolano pie donne, uriosi,
soldati, ergendosi, in una sorta di individualità eroica, quali portatori di
valori alternativamente positivi e negativi, ma comunque sempiterni: il ladrone
cattivo piega significativamente il capo a terra, verso la materialità ed il
peccato, il ladrone buono alza il viso al cielo, già presago della sua futura
destinazione; in mezzo, Cristo distende le Sue braccia, comprendendo il Bene e
il Male, ma con la testa reclinata verso il Bene.
I ripetuti pentimenti dell'artista, le momentanee cadute di stile non inficiano
la bellezza né l'importanza dell'opera, che denota, anzi, una certa pratica
dell'affresco, pur in presenza di cedimenti tecnici. Il gusto per particolari
ricchi è attestato dalle notevoli tracce di doratura sulle aureole e sulle
vesti dei personaggi religiosamente più rilevanti, unitamente all'utilizzo
dell'argento sui finimenti dei cavalli e sulle insegne militari. Inoltre, l'uso
intenso del nero su gran parte delle figure e sul fondo, come base preparatoria
per la campitura dell'azzurro ed il fatto che si tratti non di nerofumo, bensì
di nero di mica conferma la formazione nordica dell'artista.
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