13 - JEAN LOUIS SAPPE’, la dura vita del dializzzato
JEAN LOUIS SAPPE’ - la dura vita del dializzzato
Nelle Valli Valdesi, non molto lontane da noi, Jean Luis Sappé non ha bisogno di presentazioni, perché è sicuramente un personaggio di spicco.
La sua figura di maestro ci fa venire subito in mente don Lorenzo Milani e la scuola di Barbiana, e di Sappé Nuto Revello ha scritto, dopo aver incontrato negli anni passati i suoi allievi alle elementari di Angrogna: «Ricordo un incontro–dibattito ad Angrogna, con Jean Luis Sappé come “moderatore”. Tutti raccolti attorno al lungo tavolo a discutere della guerra fascista e della guerra partigiana, con un impegno e una maturità più unici che rari».
Chi conosce Sappè, non può che sottoscrivere: perchè il maestro (ora in pensione) di Angrogna l’impegno ce lo mette davvero, ed è un impegno appassionato, in ogni cosa che fa: come anche nel conosciutissimo “Gruppo Teatro Angrogna”, del quale è l’ “anima”…
Ma procediamo con ordine, iniziando con una breve carta d’identità di Jean Luis Sappè: «Ho 55 anni, ho fatto il maestro elementare per 30 anni fino al 1992, ma la pensione non me la sono goduta molto, e lo spiegherò meglio dopo. Attualmente sono anche impegnato in municipio e sono, per la seconda volta, sindaco di Angrogna: farò il sindaco, salute permettendo, fino al 2002, dopodiché mi ritirerò a vita privata, perché credo di aver lavorato per la mia comunità, religiosa e civile, praticamente dall’età di 20 anni».
UN MAESTRO ECCEZIONALE
Cosa ha rappresentato per lei la scuola?
«Fare il maestro è stata la mia vita, ci ho creduto e mi sono realizzato. Ho fatto esperienze molto interessanti, dando e ricevendo parecchio. E ho avuto la fortuna di riportare sui giornalini (diventati poi libri) le nostre esperienze scolastiche; esperienze di “controscuola”, parte integrante dei problemi del territorio, senza libri di testo… io sono riuscito a portare sui banchi di scuola i problemi dei miei ragazzi e delle loro famiglie».
L’altra grande passione è sicuramente il teatro…
«Sì, certamente. Una passione iniziata quando ero ragazzo: essendo io valdese, nell’attività della Chiesa avevo già tutto il mio iter programmato: a diciassette anni la conferma del Battesimo, entrando a far parte della Comunità valdese in modo attivo; ho frequentato l’Unione giovanile (dove si faceva attività di studio e riflessione biblica) e c’era anche l’antichissima tradizione della recita: io nel 1960 ho iniziato a recitare dodici battute, e poi… non ho più smesso! Si costituita nel 1967 una Filodrammatica valdese, che poi nel 1972 è diventata “Gruppo teatro Angrogna”… sono passati 40 anni, e non ho intenzione di smettere!».
L’EMOZIONE DAVANTI A DARIO FO
Quali le soddisfazioni più grosse?
«Sicuramente l’emozione provata nel recitare a Milano alla Palazzina Liberty alla presenza di Dario Fo, che per me è stato un mito, la massima espressione culturale teatrale italiana recente… Noi abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di avere avuto la sua critica positiva a un nostro spettacolo. E poi l’altra soddisfazione enorme è stata quella, insieme ai miei amici, di portare in giro (nelle Valli e fuori) in questi anni degli elementi di riflessione, che erano idee nostre da comunicare agli altri».
Il vostro teatro (che è stato anche trasmesso più volte in tv) è impegnato…
«La bellezza del nostro impegno è anche dovuta al fatto che siamo noi a scrivere i testi degli spettacoli (ed è cosa assai faticosa), sui temi più svariati: da quelli molto attuali della guerra, della violenza, della sopraffazione alle pagine di storia valdese e a una “rilettura” di quelle che sono state le prime “purghe etniche” della storia (si pensi alle Crociate contro i valdesi, colpevoli di aver un modo diverso di vivere la propria fede). In questi anni ci siamo poi occupati più volte della Resistenza, della guerra partigiana, della cultura popolare delle nostre Valli attingendo le informazioni dalla nostra gente: un lavoro fondamentale, questo, nel “tirar fuor” (anche a scuola) una cultura ingiustamente considerata minore… e con la grande soddisfazione di riuscire a far passare nella mente della gente che ti aveva raccontato la propria storia la consapevolezza di essere importante: non ci sono solo le telenovele e i modelli delle tv berlusconiane! La tv propina modi di vivere artificiali e non veri, lontani da quella che è la nostra realtà, alla quale – con i nostri spettacoli – siamo riusciti a restituire piena dignità».
Quale sarà il vostro prossimo lavoro?
«Un film di mezz’ora, finanziato dalla Provincia di Torino, che uscirà in videocassetta, sulla Resistenza di ieri e di oggi. attraverso la storia di un partigiano (dal suo ingresso nella scuola fascista fino a quando morirà sotto il piombo nemico) rileggiamo la storia della guerra di Serbia di questi giorni, pari pari…».
IL DRAMMA DELLA DIALISI
I progetti di Jean Luis Sappè, al momento di andare in pensione dalla scuola, sono stati brutalmente modificati dalla malattia…
«Io convivevo con il terrore di finire in dialisi già nel 1977, quando da un controllo emerse una grave forma di insufficienza renale ormai cronica. Probabilmente sin dagli anni ’50 o ’60 io ho contratto una infezione e poi un batterio si è infilato nei miei reni e ha iniziato a rovinarli… potrà sembrare strano, ma si può arrivare alla dialisi senza accorgersi di nulla prima…».
Come ha reagito?
«Nella mia ignoranza, già nel 1977 sapevo che, prima o poi, sarei finito in dialisi: la mia strada era segnata. Però non mi sono dato perduto e anzi ho cercato di reagire, provando prima con le cure tradizionali e poi con quelle della medicina alternativa (iridologia, pranoterapia e poi molta omeopatia). Sta di fatto che sono riuscito a convivere con la mia insufficienza renale per una ventina d’anni, in condizioni fisiche quasi ottimali, escludendo il terrore per la dialisi».
Cosa succede quando i reni si ammalano?
«I nostri reni sono costituiti da ben due milioni di piccolissimi filtri chiamati nefroni. Sono loro che estraggono dal sangue i veleni, l’acqua e i sali in eccesso. L’accumulo di queste sostanze nel sangue e nei tessuti provoca una intossicazione dell’intero organismo, che si chiama Uremia. L’accumulo crea malessere, frequenti mal di testa, perdita d’appetito, vomito, nausea,,, questa situazione, portata agli estremi, e se non si interviene con la dialisi, provoca la morte della persona».
La dialisi cosa è?
«Noi dializzati, per poter vivere, abbiamo bisogno di una macchina che svolga le funzioni dei nostri reni malati: la macchina si chiama rene artificiale: la nostra vita è molto difficile e ce la dobbiamo guadagnare giorno dopo giorno. Io mi ero fatto l’idea che la dialisi era una condanna a morte…».
OGNI DUE GIORNI IN OSPEDALE
Quando hai iniziato a frequentare gli ospedali?
«E’ una data che io ricordo molto bene: il 12 febbraio 1996, il giorno in cui mi è stata fatta la prima dialisi. Io avevo da qualche tempo le gambe gonfie e non riuscivo nemmeno più a connettere bene, per cui me l’aspettavo: le analisi hanno confermato le mie sensazioni, il tasso di creatinina era altissimo e i medici mi hanno detto, stupiti: “Se lei aspettava ancora un giorno, usciva dall’ospedale nella bara!”. Ero completamente intossicato, i miei reni non funzionavano proprio più. Sono stati molto duri i primi due giorni perché in quei momenti ho capito che la mia vita stava sostanzialmente cambiando: soprattutto stavo capendo che avrei perso buona parte della mia libertà, e che la mia vita sarebbe stata legata a un macchina e agli ospedali».
La malattia di Jean Luis ha cambiato la vita della sua famiglia (non solo la sua), dei suoi amici, del “Gruppo Teatro Angrogna”…
«Nelle prossime settimane – lui spiega – andremo con il Gruppo a tenere uno spettacolo in Danimarca, ma so bene io la vita che ho dovuto fare per trovare un ospedale lassù, per poter fare la dialisi. Dialisi che io devo fare tre volte alla settimana, e per noi dializzati non c’è Pasqua, né Natale, né Capodanno, né le ferie: tra Natale e Capodanno, il dializzato deve fare tre sedute in ospedale».
Come è cambiata la sua settimana?
«Per pulire e filtrare il sangue, visto che i miei reni sono malati, io devo andare in ospedale ogni lunedì, mercoledì e venerdì. Sto attaccato al rene artificiale per quattro ore ogni volta e poi devo seguire una dieta con molta attenzione. C’è una ragazza kossovara che è riuscita a sopravvivere senza dialisi per dodici giorni: cosa incredibile, non è morta solo perché non aveva nulla da mangiare, e perciò non mangiando – e bevendo pochissimo – non si è intossicata».
LA SETE, LA TRAGEDIA DEL DIALIZZATO
Con la dialisi, subentrano tanti problemi: la stanchezza, i pruriti. La sete, che Jean Luis definisce come «la tragedia del dializzato: tutti i liquidi, da una dialisi all’altra, non vengono eliminati, perché il dializzato non urina quasi più. Allora sei costretto a bere molto poco, non puoi assumere più di quattro litri di acqua ogni due giorni (acqua che, si noti bene, è presente in tutti gli alimenti che mangiamo: la frutta, il pane, la verdura, la carne, ecc.). Il dramma, per me, è il sabato sera: sovente andiamo a fare degli spettacoli teatrali, e prima della malattia andavo a mangiare un boccone e a fare un po’ di festa con i miei amici… ora non è più possibile! E quando “sgarro”, ho due alternative: la dialisi si allunga a cinque ore (e, l’assicuro, non è facile, anche se io ho imparato a lavorare mentre faccio la seduta: scrivo per il Comune, per il Gruppo teatrale, rispondo alle lettere, cerco di impegnare bene questo tempo) oppure mi porto il litro in più di acqua da smaltire alla seduta successiva.
Durante la dialisi, che non è dolorosa, per me la cosa più pesante è la noia, per altri malati, invece, ci sono altri problemi di salute.
E, dal punto di vista psicologico e anche pratico, è pesante il sapere che tu dipendi da una macchina, dagli ospedali: se mi voglio muovere, devo per tempo trovare l’ospedale che mi faccia le sedute. In Italia è difficile, in Francia e Germania sono meglio organizzati».
La dialisi cosa le ha fatto capire?
«La fortuna che avevo prima, quando stavo bene. Ma anche la fortuna, che ho adesso: se i reni fossero andati in tilt quando ero giovane, sarei morto. Invece io riesco a convivere con la mia malattia e riesco a fare, tutto sommato, una vita abbastanza normale… riesco a stare anche vicino alla mia famiglia e a mio figlio Micael…».
E sua moglie?
«Maura è stata formidabile, mi ha sostenuto moltissimo ma anche mio figlio Micael (che ha sofferto molto, pur non dandolo a vedere all’esterno) mi ha aiutato moltissimo. E poi il calore e l’affetto di tanti amici sinceri mi ha aiutato e mi aiuta a superare i momenti difficili. Devo anche aggiungere che con gli altri dializzati, ci capiamo al volo; perché abbiamo gli stessi problemi… anche se succede che ti vedi il venerdì, e poi scopri il lunedì dopo che qualcuno è passato a miglior vita».
Dal di fuori, lei come si vede?
«Sono una persona scorbutica e difficile da trattare: e la malattia mi ha reso più nervoso. Anche se non riesco a tenere il broncio per più di tanto, la gente di Angrogna a volte mi rimprovera di essere un sindaco troppo buono: in fondo, io sono molto sentimentale e romantico».
IN CRISI CON DIO
Jean Luis Sappé, valdese convinto, confessa che «la malattia mi ha mandato in crisi nel mio rapporto con Dio: io per vent’anni ho saputo che la mia fine sarebbe stata questa, ma per vent’anni ho sempre sperato e pregato che non accadesse.
Nella Bibbia, si legge se tu chiedi a tuo Padre un pane, non ti darà una serpe; c’è anche scritto che se tu avessi tantissima fede, potresti dire alle montagne di spostarsi; c’è scritto che il Padre che è nei cieli, si prende cura anche dei piccoli passeri, che sono sulla strada… Allora uno può andare in crisi, e chiedersi: ma Dio, mi ha dimenticato? E gli ebrei dell’Olocausto? Quanti passeri sono crepati nei forni?
Io sono andato in crisi, lo confesso, e anche per alcuni giovani amici che la morte ha portato via».
In Italia ci sono oltre diecimila persone che attendono il trapianto e Jean Luis, come loro, ha una speranza: il trapianto renale: «Io sono in condizione ottimistiche, ora ho la speranza che un giorno o l’altro squilli il telefono e mi chiamino per l’intervento».
È cambiato il suo rapporto con la vita?
«Sì, ora cerco di viverla in modo più intenso».
L’INTERVISTA E’ DEL LUGLIO 1999