15- ENRICO (“PUPA”) BURZIO, l’uomo che rideva pur sapendo di dover morire
ENRICO (“PUPA”) BURZIO - l’uomo che rideva pur sapendo di dover morire
SALUZZO - «Ho avuto una grande fortuna, un’infanzia delle più felici. Ho indimenticabili ricordi degli anni passati in Veneto, a Paderno del Grappa, dove nostro padre Lorenzo si era trasferito per insegnare agli Istituti Filippin. Sono nato ad Asolo il 18 ottobre 1952, ultimo di quattro fratelli maschi ( e dopo di me, ne arriveranno ancora due). Della mia infanzia, ho ricordi incantevoli… Gli anni del Veneto sono stati stupendi ed anche adesso che sono paralizzato sulla carrozzella per la “bestia” che ho in testa, non dimentico di certo quei momenti di grande felicità, che per me sono stati un vero Paradiso…».
Enrico Burzio, detto “Pupa”, cuoco di grande classe, dall’Immacolata 1999 gira gli ospedali, per via di un brutto tumore al cervello. Il colloquio avviene nella sua casa di Revello il 18 gennaio 2000 e “Pupa” accetta (pur con qualche difficoltà nel parlare, dovuta alla terribile malattia) di ricordare gli anni della propria infanzia.
GLI ANNI DEL VENETO
«Ricordo le strade sterrate, le passeggiate per funghi, il sapore delle fragoline di bosco. Sin da bambino, io sono sempre stato un grande spirito autonomo, portavo a casa di tutto (con grande gioia di mia madre) …salamandre, lucertole, animali di ogni specie!. I miei fratelli Mauro, Giorgio e Paolo erano terribili: i vicini di casa ci avevano soprannominati “i burziani”, eravamo quattro scalmanati, menavamo tutti e ne combinavamo di tutti i colori. Andavamo nei boschi sotto il Grappa tutti i giorni, con nostro padre, di pomeriggio, finita la scuola. Ho ben impressi i ciclamini selvatici e le tante cartucce della guerra, che noi svuotavamo dando poi fuoco alla polvere da sparo…».
Qualche vostra “impresa” particolare?
“Pupa” Burzio ride divertito e racconta: «Natalino, un nostro amico, lo avevamo buttato nel letamaio, dopo una discussione… Prendevamo di mira un nostro vicino di casa, che si chiamava “Scioppe” (è poi finito emigrato in Australia): aveva il cesso fuori casa, senza tetto.Noi salivamo in alto e gli tiravamo le pietre, quando andava a fare i suoi bisogni».
UNA MADRE DOLCISSIMA
E la vostra madre Wanda?
Ad Enrico vengono gli occhi lucidi: «Nostra madre… come si fa a raccontarla? Era dolcissima, e questo ci ha aiutati a vivere meglio tutti. Quando è nato Alberto, nel giugno 1959, ha rischiato di morire ed è stata per mesi in ospedale. Al suo ritorno a casa, con nostro zio Nino avevamo scritto con i fiori dell’aiuola di casa “W la mamma”. Più tardi, nello stesso pomeriggio, mio fratello Paolo ed io siamo tornati a casa sanguinanti, per via di uno scontro a sassate… Ricordo che nostra madre ci consolò, ci tagliò i capelli e ci mise un cerotto in testa».
Vostro padre Lorenzo era severo?
«Tante volte, quando arrivava a casa da scuola, ci dava un ceffone a testa. Noi, piangendo, gli dicevamo: “Non abbiamo fatto nulla!”. E lui: “Va bene, lo schiaffo è già per domani!”. Quando siamo diventati ragazzi, e frequentavamo già le Scuole superiori, in occasioni di grandi discussioni o litigi a volte si sfilava la cintura dei pantaloni (che era che la cinghia del suo fucile da partigiano, da lui usata fino agli anni ’70)… Mamma invece ci puniva quasi mai; hanno fatto tutti e due dei sacrifici enormi per tirare su la famiglia».
Un ricordo particolare del Veneto è legato a Maria: «Era la nostra “tata”, ci faceva sempre giocare, aveva qualche anno in più di noi. Ci ha sempre voluto un sacco di bene e continua ancora adesso, a 500 chilometri di distanza e dopo che sono passati 40 anni: di noi sa tutto…».
Quali i rapporti fra voi fratelli Burzio?
«Io li ho sempre considerati ottimi, spero che la stessa cosa sia anche per loro. Il fatto di essere più piccolo tra quattro mi ha dato una mano. Nel 1959 è nato Alberto (e noi eravamo un po’ delusi, perché speravamo in una sorella, che è poi nata nel 1964, quando è arrivata Cilla) ma io non sono mai stato geloso di nessuno».
I TOPI NELLA TRAPPOLA
Tra i ricordi della scuola di Enrico Burzio, ci sono alcune “perle”…
«Del Veneto, ho ricordi sfumati: laggiù ho fatto la prima e seconda Elementare. Ero l’incaricato di togliere i topi dalle trappole, il mio compagno di banco era Daniele, un ragazzo down. Il mio compagno di banco alle Medie a Saluzzo era “Toro”, i professori di lui avevano un po’ paura, ricordo che a volte si buttava giù dal muretto, all’Oratorio di vicolo del Follone. “Toro” è morto da tanti anni, di Daniele non ho più notizie, ma a tutti e due ho voluto bene… Nostro fratello Giorgio (“Cio”) era un grande studente, a scuola non faceva nulla e alle 13.10 la cartella era già pronta per il giorno dopo, poi passava i pomeriggi interi a giocare all’Oratorio di vicolo del Follone».
LE PARTITE ALL’ORATORIO
Gli anni dell’Oratorio…
“Pupa” Burzio sorride: «Abitavamo in via Bodoni, 25 - dove c’era la fabbrica di bibite di Pratis – ed eravamo attaccati all’Oratorio. Quegli anni, sono stati spensierati: ricordo bene le partite a pallone, in 40 o 50 ragazzi, dalle 13 alle 14: la festa per noi ragazzi era il dare un calcio al pallone, non come oggi, dove il Berlusca regala miliardi ai calciatori. Noi abbiamo provato il piacere di correre dietro ad una palla rotonda… Ricordo bene don Nino, don Mattio, don Mario: preti a posto, di primissimo ordine».
«TROPPE MESSE DA RAGAZZO»
“Pupa” racconta ridendo di «aver preso troppe Messe da ragazzo: ho fatto il chierichetto fino alla prima Magistrale. Ogni Messa servita, una firma. Si vinceva poi un viaggio-premio ad un Santuario. Ho servito tantissime Messe al canonico Agnese, poi sono stato un fesso ad allontanarmi e a dare un calcio ad un argomento fondamentale come la religione, con grande faciloneria».
Quali le cose importanti, nella vita?
«Oggi come oggi, per me sono gli affetti. E cercare di fare del bene agli altri (cosa che nostra madre Wanda ci ha sempre insegnato), e se non riesci a fare del bene, almeno cerca di non fare del male».
E il 10 di Storia sulla pagella in terza Media?
«Queste sono fregnacce».
La grande passione per la cucina, dove è nata?
«Ho iniziato da ragazzo, nostra madre stava poco bene ed io sovente cucinavo. Avrei fatto l’Alberghiero, ma era lontano, a Stresa, e non avevamo i soldi. Così ho frequentato le Magistrali. Dopo il diploma, ho fatto il casellante ferroviario, il rappresentante, ho lavorato in Locatelli e poi, nel 1979, con Piero Daniele ed Ubaldo Rosso mi sono lanciato: abbiamo preso la “Taverna dei Porti Scur” a Saluzzo, sono stati anni d’oro, di grandi soddisfazioni! Il locale l’abbiamo tirato su insieme e abbiamo lavorato tantissimo! Ci abbiamo messo un grande impegno (anche con Isabella e Donatella Margaria, e Livio Ruatta, che sono arrivati dopo) e con mia moglie Ileana, ed è giunta la “stella Michelin”!».
Perchè avete lasciato Saluzzo?
«Avevamo l’idea di fare un ristorante alla “Villa dell’Eco”, ma non si concretizzò. Ci siamo poi innamorati dell’ “Arcangelo” di Bra, ma quegli anni sono stati davvero difficili. Poi, dopo, sono stato al “Country” di Cuneo, al “Griselda” di Saluzzo ed è iniziata l’avventura del negozio di
gastronomia, con discreto successo».
«CAMBIERO’ LAVORO, NELL’ALTRA VITA»
Il mestiere di cuoco?
« A me è sempre piaciuto e l’ho sempre fatto con una grande passione. E’ un lavoro che non mi è mai pesato e che mi ha regalato enormi soddisfazioni. E’ un lavoro gioioso, puoi regalare agli altri grandi piaceri: i piaceri della buona tavola! Io mi sono impegnato al massimo ed ho sempre cercato di migliorare in cucina… C’è chi mi ha scritto: “Non avevo mai mangiato così bene”».
La tua famiglia…
«Sono stato fortunato ad incontrare Ileana: una donna eccellente, “fuori della cavagna”. Io però le ho sempre detto che, se non fosse stata con me, non sarebbero venute al mondo due figlie straordinarie, con grandi talenti. Valentina e Cecilia spero non vengano rovinate dagli zii!».
Da dove viene la capacità di sdrammatizzare anche le situazioni più difficili?
«Ci rido una volta sopra. E se non sei capace a farlo, ti aggiusti».
Quando hai saputo dell’ “intruso” al cervello, come hai reagito?
«Ho pianto un minuto. E poi mi sono guardato intorno: sono fortunato, non ho ancora avuto dolore. E poi, come diceva Tonio di Gervaso: “A chi la tocca, la tocca!”. In Ospedale, ho conosciuto persone eccezionali: don Pietro Mainero, Rosa la peruviana, quel poveraccio di Maero, al quale hanno tagliato la gamba. Io spero di riuscire a mandare via il “babau” che ho in testa, non vi dovete preoccupare per me, ce la metterò tutta!».
«NON HO PAURA DI MORIRE»
E “Pupa” Burzio aggiunge: «Non ho comunque paura di morire, perché se mi guardo indietro mi pare di non avere combinato dei grandi disastri! Spero che il Padreterno perdoni le nostre debolezze umane, io ho un solo pensiero che mi tormenta: lasciare Ileana, Valentina e Cecilia».
Sull’ipotesi della reincarnazione, “Pupa” ridendo dice: «Prima di rivivere una seconda volta, chiedo una pausa di… almeno 150 mila anni! E poi non voglio più fare il cuoco, ma il sellino da bicicletta da donna!».
E le donne vecchie?
«Una vecchia ogni tanto va bene lo stesso!».
E i tanti amici che hai?
«Sono un patrimonio che mi ritrovo, e mi chiedo perché sono così fortunato! Io sono sempre stato un simpaticone, un gran barzellettiere, la vita ho sempre cercato di prenderla per il verso giusto… Non ho quasi mai rotto le balle a nessuno, tra le cose che mi dico sempre, c’è questa : “Non rompere le scatole agli altri, ci sono già troppi che lo fanno!” ».
Enrico Burzio (al quale i medici avevano dato due mesi di vita ) ha combattuto per un anno contro la malattia che alla fine l’ha sconfitto, raccontando barzellette fino a pochi giorni prima del trapasso e regalando tante, importanti lezioni alle persone che gli sono state vicine.
L’intervista è del 18 gennaio 2000. “Pupa” Burzio ha lasciato questa terra il 30 novembre dello stesso anno.